Enzo Tortora direbbe: «Dove eravamo rimasti?». Potremmo chiederci lo stesso davanti ad una magnum di Equipe 5, una delle etichette storiche del metodo classico italiano, figlia di un momento magico dell’enologia trentina, da diversi anni nel portfolio della Cantina che è uno dei veri dominus del mercato italiano ed internazionale. Perchè l’equipe 5 non è il “solito” spumante trentino, ma uno dei suoi simboli esattamente come è il Fojaneghe per i bordolesi italiani. Un apripista, un antesignano, un pezzo di storia che sessant’anni dopo è ancora sul mercato. Partiamo da un po’ di storia: Equipe 5 perchè cinque erano i suoi ideatori. Cinque giovani enologici trentini che, davanti alla povertà dell’agricoltura atesina nei primi Anni Sessanta, immaginarono un futuro diverso. I loro nomi? Leonello Letrari, Bepi Andreaus, Riccardo Zanetti, Pietro Tura e Ferdinando “Mario” Tonon.  Giù il cappello, ragazzi.  Raccontava Leonello Letrari a “Il Trentino del Vino”: «La Bossi Fedrigotti, a cui  avevo proposto l’idea dello spumante, non accettò: “Non mischiare il sacro con il profano”, mi dissero. E allora tornai alla carica con i miei compagni di viaggio. E così nacque Equipe 5; era il 1961, cinquant’anni fa appunto. Divennero soci, quei cinque ex allievi di San Michele che giravano l’Europa, tutti fra i venti e i trent’anni. La prima sede fu a Lavis, in un palazzotto dove Ferrari tempo prima aveva già trafficato con le sue bollicine, poi nelle cantine Pedrotti di Mezzolombardo, ex salumificio degli Asburgo. Le uve erano quelle pregiate di Mazzon e dei Pochi di Salorno, selezioni attente di Chardonnay e Pinot Nero. La vinificazione ce la faceva Hoffstätter, poi la spumantizzazione, remuage e tirage , a Mezzolombardo». Nel giro di vent’anni i magnifici 5 passarono da poche migliaia a mezzo milione di bottiglie. Tanto per far capire la dimensione del successo, erano i tempi in cui Ferrari arrivava al milione di bottiglie prodotte e vendute.
Chardonnay e Pinot nero, allora come oggi, e fu un successo ininterrotto per diversi decenni. Poi vennero nuovi impegni professionali, la sfida di un mercato complesso sebbene in crescita e la decisione di cedere il brand alla Buton. Da questa, qualche anno dopo  l’arrivo in Cantina di Soave dove un altro giovane trentino, Bruno Trentini, stava portando avanti un turn-over che fa oggi di Cadis, appunto, uno dei veri player nazionali.  Questa la storia. E oggi? Torniamo alla Magnum di cui sopra che ha maturato nelle gallerie di Rocca Sveva. Nel bicchiere è scintillante, i profumi sono netti, molti puliti, marcati: crosta di pane, fiori bianchi, un gradevole balsamico, un accenno di tropicale. Il palato è bello ampio, molto coerente con l’olfatto: agrumi, ananas, frutta candita. Lievito e un finale sapido, molto lungo ed invitante. Se lo trovate in carta vini, prendetelo. Perchè le belle storie non muiono mai. Grazie a Cantina di Soave per perpetuare il sogno di cinque giovani enologici trentini che non si sono fatti intimidire da circostanze e contesto sfavorevoli.